Una breve storia del cioccolato
L’albero del cacao, che produce i semi da cui si estrae la polvere per la realizzazione del cioccolato, cresce spontaneamente lungo i bacini dell’Orinoco e del Rio delle Amazzoni. La storia ci dice che i primi a sfruttare questa pianta furono i Maya che intorno al 600 d.C. la introdussero nella penisola dello Yucatan. Altre popolazioni precolombiane che lo coltivavano erano gli Olmechi e i Toltechi che ne estesero la produzione fino alle zone interne del Messico.
I semi di questo albero erano molto pregiati, tanto che servivano per gli scambi ed erano considerati unità di calcolo: 400 semi = 1 Zontli; 800 semi = 1 Xiquipilli. Per rendersi conto del loro valore basti pensare che con cento semi si poteva comprare uno schiavo; dieci semi valevano un coniglio.
Per gli Aztechi i semi di cacao avevano soprattutto valore mistico e religioso. I semi venivano tostati, macinati e, uniti ad un liquido, venivano sbattuti fino a risultare una bevanda spumosa denominata Xocolatl. Si usava bevuta fredda, era amara e poco gustosa e quindi tutt’altro che la golosità oggi tanto apprezzata. In effetti veniva assunta come medicamento e serviva ad eliminare la fatica e a stimolare le forze fisiche e mentali favorendo la meditazione e la trascendenza.
Come si conviene ad una pianta di elevato significato sociale e religioso, anche al cacao venne attribuita un’origine divina. Secondo la leggenda, una principessa venne lasciata sola a guardia delle ricchezze dello sposo partito per difendere l’impero in guerra. Presto fu assalita dai nemici che tentarono di costringerla a rivelare il luogo in cui si trovavano i loro beni. Per vendicarsi della principessa che continuava a tacere la uccisero e, dove cadde il suo sangue, nacque una pianta di cacao, avente dei frutti “amari come le sofferenze dell’amore, forti come la virtù, rossi come il sangue”. Quando tornò dalla guerra il marito raccolse i frutti e con essi volle esaltare la fedeltà che la moglie pagò con la propria vita e li rese sacri e preziosi. Un giorno, malato e sofferente per la terribile perdita, il vedovo bevve una pozione magica preparata da uno stregone che, anziché guarirlo lo fece diventare folle. In preda alla pazzia fuggì verso il mare dove si allontanò a bordo di una zattera fatta di serpenti aggrovigliati scomparendo nell’oceano. Prima di abbandonare il mondo terreno il re Quetzalcoàtl giurò che avrebbe fatto ritorno per riconquistare il suo regno. Il seme dell’albero di cacao in suo onore fu chiamato cacalhualt e poi chocolatl ed è da questo termine che ha origine il termine cioccolato.
I Maya consumavano il cacao come bevanda calda servita in recipienti di ceramica che si vedono anche in vari dipinti; in questi la cioccolata veniva versata dall’alto, forse con l’intento di ottenere schiuma che era considerata la parte più prelibata. I commercianti (pochtecas) e quasi sicuramente anche i soldati lo consumavano sotto forma solida, per comodità.
Il suo primo contatto con gli europei fu nel 1502 quando Cristoforo Colombo, durante il suo ultimo viaggio nelle “Indie Occidentali”, sbarcò a Guanja (isola al largo dell’Honduras). Gli indigeni lo accolsero offrendogli una tazza di xocoatl ma, a causa dello sgradevole sapore dell’amara bevanda, il navigatore non gli diede alcuna importanza. Il figlio (Fernando) scrive così nel diario di bordo: “gli indiani tenevano molto da conto quella sorta di mandorle perché quando una di esse cadeva a terra tutti si affannavano a raccoglierla come se fosse loro caduto un occhio dalla testa” (da Laurencich Minelli, La storia della cioccolata, Esculapio, Bologna, 1997).
Nel 1519 lo spagnolo Hernan Cortez approdò nel Nuovo Mondo per conquistarlo e, poiché proprio per quell’anno era previsto il ritorno di Quetzalcoatl, venne accolto pacificamente dall’imperatore Montezuma e dal suo popolo. Gli fu offerto il “cibo degli dei”, ovvero una bevanda a base di cacao, farina di mais e varie spezie, tra cui il peperoncino. Forse non proprio grazie al sapore della bevanda, ma Cortez comprese il valore economico del cacao e ne portò una certa quantità in Spagna. Qui esperti cuochi e preparatori d’infusi ne migliorarono il sapore eliminando le spezie ed aggiungendo zucchero e vaniglia, creando una bevanda dolce e saporita. Il cioccolato per molti anni fece la fortuna dei reali spagnoli che, mantenendo segreta la ricetta per la sua preparazione, la diffusero in diverse nazioni con grande lucro.
Oltre a personalizzarne la ricetta, gli spagnoli delle colonie inventarono un sistema per rendere la cioccolata più spumosa: un frullino di legno conosciuto come molinillo. La cioccolata veniva servita in un recipiente ricavato da una zucca tagliata e svuotata (jicara). Siccome aveva base concava era difficile farla stare “in piedi” a tavola e quindi si inventò la mancerina: un piatto con un anello metallico su cui si appoggiava la jicara. Giunto in Europa questo “metodo” presto vene reso più adatto agli usi nostrani realizzando la jicara e la mancerina in ceramica.
Presto vennero create ricette “personalizzate”. In Italia, ad esempio, il principe Cosimo de Medici custodì gelosamente alcune ricette che vedono protagonisti ingredienti come cedrata, limoncello, gelsomino, cannella, vaniglia.
Quando la principessa spagnola Anna sposò Luigi XIII di Francia portò con se in terra francese l’attrezzatura necessaria alla preparazione del cioccolato, il cui uso era consentito esclusivamente alla sua damigella di corte. Presto ci si abituò a diluirlo con il latte e non più con l’acqua e prese il nome di “cioccolatte” divenendo così la bevanda più apprezzata a corte con un cerimoniale di preparazione talvolta maniacale.
In anni successivi raggiunse anche la Germania (1646 ca.) e l’Inghilterra (1657 ca.).
Verso la fine del ‘600, l’apertura di numerose botteghe artigianali fece diventare Torino la capitale italiana della cioccolata. La prima licenza di cioccolateria italiana venne assegnata a Giò Battista Ari nel 1678.
Grazie all’industrializzazione divenne meno costoso e faticoso produrre la deliziosa bevanda e così, grazie alle nuove macchine frantumatrici dei semi e raffinatrici idrauliche della pasta di cacao (Francia), insieme alla macchina per estrarre il burro di cacao inventata dall’olandese Van Houten (nome legato ancora oggi alla produzione del cioccolato) la diffusione del cioccolato aumentava. Fino ai primi dell’800 quando, con l’invenzione di macchine a vapore per la macinazione dei semi, ha inizio la produzione di grandi quantità di cioccolato consacrandolo definitivamente un prodotto alla portata di quasi tutti. Da qui la sperimentazione per realizzare nuove varianti ed arricchirlo di gusti e lavorazioni diverse. Un esempio con un nome ancora oggi molto noto è l’invenzione di Rudolph Lindt che alla fine del 1800 sviluppa una tecnica per raffinare il cioccolato ottenendo un prodotto molto fine. Nasce così il cioccolato fondente.
Oggi il cioccolato è ampiamente tutelato e regolamentato. Ad esempio può fregiarsi del nome “cioccolato” soltanto un prodotto costituito di granelli di cacao, cacao magro e cacao in polvere, saccarosio e burro di cacao. La parte secca complessiva derivante dal cacao deve essere almeno il 35%, il cacao magro almeno il 14% e il burro di cacao almeno il 18%.
Ormai in commercio ne troviamo una varietà notevole; la cioccolata è diversificata per gusto e forma e ciò è dovuto a diversi fattori quale lavorazione, tostatura dei semi del cacao, additivi e varie aggiunte (menta, nocciola, uva passa ecc.). Legalmente i nomi non sono casuali, ma dipendono da criteri ben precisi. Vediamo i prodotti più noti:
Il cioccolato fondente contiene solo pasta di cacao, burro di cacao, zucchero, vaniglia e, a volte, lecitina (un emulsionante) in quantitativi variabili. La percentuale di cacao deve essere almeno del 45% e il burro di cacao il 28%. I migliori risultati in cucina si ottengono quando si impiega del cioccolato con un contenuto di cacao del 50%. Oltre che per essere gustato in tavolette, è adatto per torte e dessert. Il cioccolato extrafondente contiene una percentuale di cacao che può superare addirittura il 70% del peso ed è di altissima qualità. Il cioccolato al latte si ottiene con l'aggiunta di latte in polvere. Più precisamente: la sostanza secca derivante dal latte deve essere almeno del 14%, il saccarosio aggiunto non più del 55%, il cacao non meno del 25% del peso. È caratterizzato da un sapore più dolce e cremoso rispetto al cioccolato fondente, ma non può sostituirlo nella preparazione di ricette da forno, in quanto il suo contenuto di cacao è inferiore e per questo lo si consuma soprattutto in tavolette. Quando lo si fonde occorre prestare particolare attenzione, perché è molto sensibile al calore. Il cioccolato amaro è quello forse maggiormente usato dai pasticceri. Viene estratto quasi tutto il burro di cacao e quanto resta viene tostato e ridotto in polvere, ha un sapore amaro e intenso. Il cioccolato bianco non contiene cacao e per questo la definizione di “cioccolato” è un po’ arbitraria. È ottenuto miscelando il burro di cacao, latte o derivati e saccarosio. È più grasso del fondente e molto usato per glassare torte e preparare mousse e dolci vari. Molto sensibile al calore, è meglio fonderlo a bagnomaria evitando di superare i 120°C.
Le gocce di cioccolato, contrariamente a quanto possiamo pensare, hanno una composizione ben stabilita. Nascono negli USA come aggiunta ai biscotti e contengono una quantità inferiore di burro di cacao rispetto al cioccolato tradizionale. Possono essere fatte di cioccolato fondente, al latte o bianco e sono un derivato del cioccolato. La loro particolarità è di mantenere la forma intatta durante la preparazione di un biscotto o di una torta. Infine, abbiamo una specialità del tutto italiana ed è il cioccolato al gianduia la cui paternità va attribuita ai torinesi. Agli inizi dell’800 il cacao era molto costoso ed a causa del blocco napoleonico era difficile reperine. Alcuni cioccolatieri torinesi ebbero l’idea di miscelarlo con nocciole ridotte in polvere ottenendo un cioccolato gustoso e più economico. Il gianduia contiene circa il 32% di cacao,da 20-40 g di nocciole macinate per ogni 100 g di prodotto.
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